C’è chi parte e chi resta.
Quando ero adolescente, ma anche da giovane ragazza mai avrei pensato che un giorno sarei andata via dalla mia città. La mia famiglia di media borghesia in una città a dimensione d’uomo mi faceva largo su un futuro più o meno già scritto. L’infanzia tra zii, cugini e visite settimanali alle nonne. La giovinezza tra gli amici di sempre, la scuola, gli scout, i primi amori.
Poi arrivò la vita a sparigliare le carte. E del mio futuro professionale come commercialista nello studio di famiglia (dove già lavoravo) e delle domeniche a mangiare ragù non rimase quasi nulla.
Arrivò un vento forte e mi ritrovai a vivere in un altro paese. E poi un altro, e poi un altro ancora.
Chi come me ha lasciato la propria terra conosce il sapore del distacco, quel crudele fremito che ha attraversato la schiena di tutti quando si è trattato di decidere dove fare nido. La speranza, l’entusiasmo ma anche la paura di star facendo un passo sbagliato. Lasciare il lavoro (nel mio caso), trovarne un altro, provare a dare uno slancio alla propria carriera e alle proprie finanze, investire nell’amore, in una nuova famiglia, concedere, sfidare.
Scommettere.
Ma invece chi resta ?
Cosa prova chi resta ? Chi vede gente partire, fare progetti nuovi. Chi decide di investire sulla propria vita, rimanendo fisicamente nello stesso posto ?
Restare vuol dire fare i conti con lo svuotamento delle famiglie ed in alcuni casi, per fortuna non il mio, il diradarsi delle tradizioni familiari. Chi cambia paese di solito tende a perdere parte del tessuto culturale per acquisire nuovi stati, nuove contaminazioni. Ovviamente e per fortuna non è la regola.
È quindi dovere di chi rimane custodire costumi e tratti tipici della propria terra.
Tocca quindi ad ognuno di noi interrogarsi sulle nostre scelte di vita, sul nostro modo di vivere lo spazio, di abitare la casa in cui siamo, il paese in cui viviamo, la nazione di cui siamo cittadini.
Si può vivere lo spazio in modi diversi, anche in luoghi diversi abitare lo spazio nello stesso modo ( custodire tradizioni dentro le case) e quindi rimanere in un certo modo legati e collegati. Questo non toglie che rimane una netta divisione tra le due parti.
Ho vissuto metà della vita in un piccola città del sud Italia, affacciata sul Mediterraneo.
Con tutti i problemi che esistono e sono sempre esistiti nella mia Bari, resta il luogo dove ho vissuto e dove torno appena posso.
Al momento la mia vita non è lì, davanti a quel lungomare magico e quei lampioni rassicuranti. La mia vita ora è da un’altra parte, lontano.
Fortunatamente mi dico a volte. Perché così ho piacere di tornare, posso sentire la fortuna dell’appartenenza. I miei amici, familiari che hanno deciso di rimanere non conoscono il mio struggimento, la nostalgia, la paura, il disorientamento, Hanno sacrificato alla sicurezza di restare, lo stupore di rivedere ogni cosa come se fosse nuova, la strana gioia di riconoscere il profumo e il colore di certe strade. La nostalgia.
Se vuoi restare in un paese, te ne devi andare, e te ne devi andare molto lontano, dai suoi costumi, dalle sue leggi non scritte, dalle sue ipocrisie, perché da lontano, quando il velo delle piccolezze umane si disfa, vedi che il paese è meglio o peggio di come lo ricordavi; e ci torni e lo senti tuo, e ti appartiene.
Non per questo chi parte è coraggioso e chi rimane perdente. A volte chi ha l’opportunità del salto la spreca e chi rimane consegue i suoi obiettivi meglio di come avrebbe potuto sognarli.
Io spero e credo che un giorno tornerò a vivere nella mia terra ma sono assolutamente certa che al di là di dove mi sia toccato vivere il mio paese avrà vissuto con me nei miei modi di fare, nelle mie parole, nel mio accento, nei miei successi e nei miei fallimenti.
Io sono altro dal mio paese, ma forse è per questo che il paese è tutto ed inesorabilmente dentro di me.
Diletta, Rio de Janeiro